GIANFRANCO RAVASI

IL RAPPORTO UOMO-DONNA SIMBOLO DELL'ALLEANZA NEI PROFETI

in Lo sposo e la sposa / PSV 13, EDB, Bologna 1986, pp. 41-56

 

 

Con Osea nell'VIII sec. a.C. avviene una svolta ermeneutica significativa riguardo alla categoria «alleanza» con la quale si erano simbolicamente espressi i rapporti tra Dio e Israele: ad una simbolica più di stampo «politico» se ne sostituisce una più «psicologica», legata alla relazione d’amore che intercorre tra due sposi. Nasce un modo molto più intenso e più ricco di rappresentare il dialogo tra l'uomo e il suo Dio. Questa prospettiva è accolta da almeno cinque profeti di grande statura teologica e poetica: l'Isaia classico, Geremia, Ezechiele, il Secondo Isaia e il Terzo Isaia. La simbologia si espande in tutte le sue potenzialità coinvolgendo anche la dimensione della fecondità, della generazione,della maternità e della paternità.

 

Una strofa di un inno sumerico al dio Enlil si apre alla contemplazione della divinità in questi termini:

 

«Enlil, le tue molte perfezioni fanno restare attoniti, la loro natura segreta e come una matassa arruffata che nessuno sa dipanare, e arruffio di fili di cui non si vede il bandolo».

 

«Allah è l'inaccessibile», ripeterà secoli dopo la fede musulmana in uno dei 99 «bellissimi nomi» di Dio: tra Dio, e l'uomo si stende un baratro invalicabile, sfera divina e sfera umana sono separate da una distanza insormontabile, la ragione umana non troverà mai il bandolo del mistero di Dio, essere silenzioso, impassibile e lontano. Eppure una delle prime sfide di ogni religione è proprio quella di scoprire un ponte di comunicazione tra il finito e l'infinito, tra l'uomo e Dio. In questo senso è estremamen­te suggestiva la categoria biblica berit-alleanza. Su questa, simbologia la Bibbia intesse una complessiva e ricca, riflessione che tenta di approfondire il mistero del dialogo tra Dio e Israele. Dio spezza il suo silenzio penetrando, nella storia e rivelando il suo progetto salvifico: emblematiche in questo senso sono le professioni di fede conservate in Dt 26,5‑9; Gs 24,1‑13 e nel Sal 136. Pur nella sua intoccabile trascendenza (Dio per la Bibbia resta sempre il Totalmente Altro contro ogni tendenza immanentistica), JHWH si impegna in una promessa‑giuramento: tale, infatti è il senso di berit, vocabolo tipico della grazia, del primato divino prima ancora che espressione di un «patto», cioè di una relazione bilaterale in cui è esplicitata, anche la risposta umana . Il Dio biblico non è, quindi, un imprendibile groviglio di fili o l'impensabile per eccellenza ma si rivela come l'Emmanuele, cioè colui che sceglie di essere con l'uomo percorrendo le sue stesse strade, inserendosi nella trama fragile e sofferta della «casa» dell'uomo (2Sam 7), offrendo ad una città la possibilità di chiamarsi JHWH‑shammah, «JHWH è là» (Ez 48,35; cf. Sir 24,8.10‑12).

Questa rivelazione-ingresso di Dio nella storia non è imperiale o magica ma attende una risposta umana‑ è in questo senso che in Gn 17, accanto al primato della parola divina, appare il gesto umano della circoncisione; è per questo che al Sinai, accanto al dono della liberazione, emergono il decalogo e il codice dell'alleanza; è per questo che alcuni studiosi intravedono in molti testi biblici (Dt; Gs 24; Es 19‑24, ecc.) la struttura di veri e propri trattati diplomatici dell'antico oriente con un prologo storico, con la tavola dei diritti‑doveri, con le relative benedizioni e maledizioni e con la siglatura ufficiale del patto. Questa bilateralità a simbolica politico-militare ha pure un suo fascino: Dio considera l'uomo una potenza con cui intrecciare un rapporto di collaborazione per attuare un comune progetto nell'universo e nella storia. Tuttavia la relazione che si instaura tra l'uomo e la divinità è in realtà ben più complessa e densa di sfumature e di segreti che l'area semantica dell'alleanza politico-diplomatica non riesce a coprire. È così che un profeta innamorato ha smitizzato e travalicato questo schema.

 

A) L’INTUIZIONE DI UN PROFETA INNAMORATO

 

Nell’VIII sec. a.C. Osea, la cui proposta teologica è presentata altrove in questo fascicolo, partendo dalla sua drammatica esperienza coniugale e familiare, dall'alleanza politico-militare passa all'alleanza nuziale come segno del Dio-uomo. Alla relazione tra due potenze che si coalizzano nel reciproco rispetto delle loro funzioni, egli sostituisce la tenerissima relazione d'amore tra due fidanzati/sposi che si cercano nella gioia e nell'intimità. L'amore umano diventa il paradigma dell'amore di Dio per l’uomo e della risposta al Dio che è amore (1Gv 4,8.16).

Il punto di partenza è terrestre ed umano: «La gioia che il marito prova con la sua donna, con te la proverà il Signore», dirà Is 62,5. Non è, quindi, l'esaltazione di una mistica estatica ed evanescente ma è l'esortazione concreta a cogliere nella realtà del bene, dell'amore, della vita, dell’essere la risposta al Dio che ci ama creando, agendo, salvando. D'altra parte siamo ben lontani dall'antica visione mesopotamica o cananea delle ierogamie («nozze divine») di stampo panteistico e politeistico. Le nozze tra il dio-principe del pantheon e la dea che, appena baciata, è feconda, la pioggia come seme del dio Baal che rende fertile la dea Terra, il rito babilonese dell'akitu in cui a capodanno si celebravano le nozze primaverili tra il dio e la dea attraverso il congiungimento carnale tra il re e la sacerdotessa: tutto questo è per la Bibbia solo «prostituzione» secondo una violenta e costante denunzia che percorre molte pagine bibliche.

Con Osea, allora, il fatto spoglio d'una crisi familiare diventa il compendio cifrato del tradimento di Israele nei confronti dell'amore del suo Signore. Il profeta che non sa non amare, nonostante il suo impegno ad essere «giusto» e ad «odiare», è il segno dell'amore appassionato del Signore che l'infedeltà di Israele non riesce a raffreddare. Il racconto trasparente di una vicenda personale porta con sé un riverbero simbolico teologico che la trasforma in «segno e presagio per Israele da parte del Signore degli eserciti» (Is 8,18). È anche significativo il fatto che per Osea l'argomento fondamentale per esigere il ritorno della donna al focolare abbandonato non sia tanto il diritto del possesso proprio del marito orientale nei confronti della donna quanto piuttosto quello dell'amore che vince la morte dell'infedeltà (Ct 8,6). L'amore ha ragioni più forti di quelle del diritto, della giustizia e della ragione. Nel film Il bel matrimonio (1982) il raffinato regista francese E. Rohmer mette appunto in bocca alla protagonista queste parole: «Non cerco un uomo che mi possegga, cerco un uomo che mi appartenga e a cui io appartenga». È questa la logica anche del Cantico dei cantici. È questo anche il comportamento di Dio secondo quella stupenda «carta d'identità» (A. Gelín) tracciata nel «credo» di Es 34 in cui. la giustizia vale solo «tre o quattro» e l'amore misericordioso deborda sino a «mille» superando così la rigorosa giustizia del taglione.

 

«Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Es 34,6‑7).

 

 

B) CINQUE PROFETI DELL'AMORE NUZIALE

 

L’intuizione di Osea ha inaugurato, quindi, una nuova ermeneutica dell'alleanza che si distende come un filo poetico e teologico all'interno degli oracoli di almeno cinque profeti. Prima di percorrere queste pagine per una lettura essenziale sono però indispensabili due premesse.

 

1. DUE PREMESSE GENERALI

 

La profezia afferma sempre senza esitazione il primato dello Sposo. L'amore di Dio precede e supera quello dell’uomo, l'elezione divina risuona necessariamente prima della risposta umana: «Tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo» (Is 43,4). Appena Dio entra in scena nella storia potremmo dire che le sue prime parole sono quelle del dialogo che apre il libretto di Malachia:

 

«Dice il Signore: Io vi ho amati. E voi dite: Come ci hai amati? Oracolo del Signore: Ho amato Giacobbe e odiato Esaù» (1,1‑3).

 

Non è Israele che per primo si interessa di Dio ma è JHWH che si interessa del suo popolo cercandolo, seguendolo, amandolo al di là della sua povertà e della sua piccolezza:

 

I1 Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli ‑ siete infatti il più piccolo di

tutti i popoli ‑ ma perché il Signore vi ama» (Dt 7,7‑8).

 

L’amore è, però, di sua natura dialogico. È per questo che esso si snoda secondo un itinerario che conosce due strade o, se si vuole, che si sviluppa secondo un contrappunto che conosce due registri, il positivo e il negativo. Amore e tradimento, fedeltà e infedeltà sembrano intrecciarsi continuamente nella storia di questa alleanza che lega uomo e Dio. Naturalmente l'accento cade soprattutto sulla dimensione luminosa che è quella costante di Dio ed è quella sperata per l'uomo. La cosa è già evidente in Osea. Da un lato incombono le «prostituzioni», la vergogna, gli amanti, le viti devastate, le sterpaglie, i «giorni dei Baal», i profumi bruciati agli idoli, gli anelli e le collane rituali, la dimenticanza del marito (Os 2,4‑15). Dio giunge sino al punto di gridare:

 

«Essa non è più mia moglie e io non sono più suo marito!... La scaccerò dalla mia casa, non avrò più amore per lei» (2,4; 9,15).

 

Ma l'ultima parola è sempre quella dell'amore ritrovato e rinato. Il c. 2 di Osea finisce (vv. 16‑25) in un'esaltante riedizione del fidanzamento, della luna di miele, dell'amore che trionfa su ogni infedeltà: «Ti farò mia sposa per sempre ... » (v. 21).

 

 

 

 

2. IL PROFETA ISAIA

 

Il primo profeta che appare sulla scia di Osea è l'Isaia classico che, senza sviluppare in pienezza la simbolica, la  usa con la sobrietà della sua perfetta poesia. Anch'egli parte con un interrogativo stupito: «Come mai è diventata una prostituta la città fedele?» (Is 1,21). La sua profezia è una sistematica denunzia della delusione di Dio. Essa trova il suo vertice nel celebre carme della vigna (c. 5) ritmato appunto dal verbo qwh, il vocabolo della speranza frustrata. Il Signore «attendeva» che la vigna producesse uva saporosa ed ecco invece uva velenosa (vv. 2.4) e, fuor di metafora nel v. 7, il Signore

 

«Si attendeva il diritto (mishpat) ed ecco invece il delitto (mispah, spargimento di sangue), si attendeva giustizia (sedaqah) ed ecco nequizia (sÈaqah, grida di oppressi)».

 

Ora, il canto, proprio in apertura, suppone un legame nuziale tra il Signore e la sua vigna, Israele (Sal 80,9‑19; Is 2‑5), un legame tenerissimo espresso col termine dodi «mio amato», il vocabolo classico del Cantico dei cantici ove risuona 31 volte, simile quasi ad un vezzeggiativo ma basato allusivamente anche sulla radicale dwd della parola «Davide».

 

«Canterò per il mio amato il mio cantico d'amore per la sua vigna. Il mio amato possedeva una vigna ... » (5, 1).

 

Il profeta in questa storia d'amore è presente come «l’amico dello sposo» (così si autodefiniva anche il Battista in Gv 3,29), una figura giuridica che durante il periodo del fidanzamento teneva i rapporti tra l'uomo e la donna cercando di concludere positivamente l'accordo nuziale.

La tenerezza appassionata di Dio per la sua «piantagione deliziosa» (v. 7) si rivela in una catena di iniziative d’amore (l'aveva vangata, sgombrata dai sassi, aveva piantato delle viti, aveva costruito una torre, scavato un tino…» v. 2), che avranno come replica un rifiuto netto, fatto di infedeltà e di ingiustizia che l'amico dello sposo, il profeta, deve amaramente registrare. Amore e delusione sono l’impasto, quindi, di questa lettura simbolica della storia di Israele e di Giuda.

 

3. IL PROFETA GEREMIA

 

Amore e delusione sono anche l'impasto dell'interpretazione offerta da Geremia, il secondo profeta che raccoglie la provocazione oseana. L'amore di Dio appare subito in un delizioso soliloquio divino inserito nell'interno di un «dibattimento processuale» (rib) sull'abbandono e sull'infedeltà di Israele:

 

«Mi ricordo con nostalgia della fedeltà amorosa (hesed) della tua giovinezza, dell'amore del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata» (2,2).

 

Il hesed nel linguaggio biblico è per eccellenza la virtù ed è espressione anche dell'atmosfera di «fedeltà amorosa» che lega due innamorati. Dio professa ripetutamente in Geremia questa sconfinata tenerezza che lo unisce ad Israele. Intensissimo è il grido che da lontano il Signore lancia al suo popolo umiliato:

 

«Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora la mia fedeltà amorosa (hesed)» (31,3).

 

Ma Israele reagisce come una femmina posseduta solo da istinti sessuali famelici, simili a quelli di una cammella o di un'asina in calore (2,23‑24): «Io amo gli stranieri e voglio seguirli» (2,25). Il lessico idolatrico è trasparente in questa dichiarazione cosciente di infedeltà di questa «donna infedele a chi la ama» (3,20).

Eppure la lunga sequenza di infedeltà, di sfrontatezze da prostituta senza arrossire (3,3), di attese ai crocicchi delle strade «come l'arabo nel deserto», di orge sui colli (3,2), di disonore con altri amanti, di contaminazioni (3,1) può essere spezzata. L'amore di Dio attende sempre che si realizzi il miracolo di un ritorno. Ridotta ormai alla solitudine (e questo è anche il valore del segno del celibato di Geremia, c. 16), Israele sente il desiderio dei ritorno­conversione (shúb è il verbo martellato sette volte nel c. 3: vv. 1.7.10.12.14.19.22). Secondo il diritto matrimoniale codificato in Dt 24,14, è impossibile riprendere in nuove nozze la donna da cui si è divorziato; eppure in 3,1 Geremia fa balenare persino questa possibilità nella certezza che «Dio non serba per sempre il rancore né in eterno conserva la sua ira» (3,5). Ciò che è impossibile al matrimonio umano diventa possibile all'amore di Dio per la sua sposa umana. Il Signore ritorna ad essere «l'amato della giovinezza» (3,4), col quale si ripete una meravig1iosa storia d'amore di felicità. Quella donna ribelle ormai non vagherà più. E – come si fa intuire nell’oscuro annunzio di 31,22 ‑ si assisterà ad una scena piena di sorpresa: «La donna cingerà l'uomo», Israele ornerà ad abbracciare nella fedeltà e nell'amore il suo Signore.

 

 

 

4. IL PROFETA EZECHIELE

 

Con diversi accenti e con una più drammatica tonalità poetica il tema viene rielaborato anche da un terzo profeta, Ezechiele, nell'interno di una monumentale allegoria, quella del c. 16, liberamente ripresa nella storia simbolica delle due sorelle (Gerusalemme e Samaria) del c. 23. Il profeta, carico di una sensibilità effervescente e quasi barocca, aveva già vissuto di persona la potenza dell'amore per sua moglie che egli chiamava dolcemente «la delizia dei miei occhi» e aveva sentito in pienezza la lacerazione dell'anima in occasione della sua morte prematura (24,15‑27). È per questo che anche la storia dell'amore di Dio per Israele è dipinta con colori intensi e genuini e con una più aspra sottolineatura dell'infedeltà rispetto agli altri profeti.

Una bambina selvaggia e abbandonata come una trovatella sul ciglio di una strada: «Passai vicino a te e vidi che ti dibattevi nel sangue... nuda e scoperta» (16,6.7).Col gesto tipico nuziale il Signore aveva steso il lembo del suo mantello e aveva coperto quella donna facendola diventare una principessa, profumata con balsamo, con vesti ricamate di seta, con calzature di tasso, con orecchini, anelli, braccialetti e corona d'oro, con sciarpe di bisso (vv. 8-13). Eppure essa non aveva trovato altra risposta all’amore di chi l'aveva salvata se non in una frenesia di tradimenti, in un catalogo di iniquità che persino Sodomia avrebbe potuto invidiarle:

 

«Superbia, ingordigia, ozio indolente, rifiutare la mano al povero e all'indigente» (v. 49).

 

Tuttavia questo capitolo, secondo una costante della teologia profetica, non fa calare il sipario su una scena oscura di tradimento. L'amore di Dio non è limitato come quello umano, ha il coraggio di spezzare la catena delle perversioni umane. Lo Sposo chiama la sposa infedele ad un'«alleanza eterna» (v. 60), indistruttibile. Essa non nasce da un passo di conversione compiuto da noi, ma dalla misericordia gratuita ed amorevole di Dio che ci ama per primo» (1Gv 4,10) e

 

«agisce con noi per l'onore del suo nome e non secondo la nostra malvagia condotta e i nostri costumi corrotti» (Ez 20,44).

 

A questo atto d'amore, allora, la sposa ritornerà in se stessa, «si ricorderà della sua condotta e sarà confusa» (16,61) e accoglierà il perdono di Dio aprendo così un nuovo orizzonte di amore e di felicità.

 

5. IL SECONDO ISAIA

 

Se Geremia ed Ezechiele incarnano la riflessione dell'ora fatale dell'esilio babilonese, il Secondo Isaia, profeta anonimo del VI sec. a.C., rappresenta l'annunzio gioioso del secondo esodo verso il focolare nazionale di Sion al termine dell'esilio. Attento, come vedremo, a definire tutte le sfumature dell'amore, questo poeta ha composto sul tema nuziale una finissima lirica in Is 54,1‑10. Prima dell'alleanza con Dio, Israele era come una donna sterile, senza marito, sola, senza figli. All'orizzonte della sua vita è, però, apparso il Signore, colui che può spezzare anche la sterilità, come un giorno era avvenuto a Sara, la sposa di Abramo: egli solo, infatti, può «far abitare la sterile nella sua casa come una madre gioiosa dei figli» (Sal 113,9). Israele ha dovuto allora allargare gli spazi della sua tenda familiare, distendere ampiamente i teli, allungare le funi e rinforzare i piuoli perché ormai la sua «discendenza era diventata come la polvere della terra, si estendeva a ovest e ad est, a nord e a sud» (Gn 28,14). «Tuo sposo è il tuo creatore!», esclama il profeta (v. 5).

È interessante notare che il testo allude solo indirettamente al peccato d'Israele, al suo disonore, alla «vergogna della giovinezza» (v. 4). Al centro c'è soprattutto l'amore intatto dello sposo che solo «per un breve istante» volge via lo sguardo dalla sua donna (vv. 7‑8). La separazione è come una nuvola, una tempesta che si esaurisce nell'arco di un istante perché lo Sposo non riesce a resistere senza la sua sposa amata: «Si può forse ripudiare la donna sposata in gioventù?» (v. 6; cf. Ger 3,1ss e MI 2,13‑16). Ecco allora lo sbocciare di un amore rinnovato, prepotente, «immenso», (v. 7), «eterno» (v. 8), giurato (v. 9), incrollabile (v. 10). L'amore non chiede più conto di nulla, è solo felice della vita ritrovata. Ed è per questo che riprende quasi da capo, come ai tempi delle origini, quando si era giovani ed entusiasti («i giorni di Noè» e della sua alleanza cosmica, v.9, cf. Gn 9). Le ultime parole del Signore sono il sigillo teologico a questo nuovo e antico amore. Può anche scatenarsi una tempesta planetaria: Dio e l'umanità restano al centro stabili, sereni ed abbracciati:

 

«Si spostino pure i monti, vacillino i colli, la mia fedeltà amorosa (hesed) non si allontanerà mai da te né mai vacillerà la mia alleanza (berit) di pace» (v. lo; cf. Sal 46,3;Ab 3,6).

 

6. IL TERZO ISAIA

 

Il nostro itinerario «nuziale» nella teologia dell'alleanza profetica si chiude col Terzo Isaia, un altro profeta anonimo del post‑esilio il cui testo piuttosto frammentario è raccolto nei cc. 56‑66 di Isaia. Il suo stupendo carme nuziale è presente nel c. 62, una lirica in cui reminiscenze di Is 49; 51‑52 e 54 sono rielaborate in modo molto originale. Una specie di titolo o di sigla di apertura prepara in 61,10 il dispiegarsi del poemetto: il Signore riveste Israele col manto nuziale e la coppia entra gloriosamente in scena:

 

«Come uno sposo cinto del suo diadema, come una sposa adorna di gioielli».

 

Il canto si snoda lungo tre movimenti: il primo (vv.1‑5) è diretto a Gerusalemme dipinta come una sposa nel giorno delle nozze; il secondo (vv. 6‑9) si indirizza alle sentinelle ed evoca i doni che vengono portati alla sposa, col terzo movimento (vv. 10‑12) tutto il popolo e la città‑sposa sono invitati ad accogliere lo sposo vincitore per concludere definitivamente le celebrazioni nuziali. Noi ci fermiamo brevemente solo sul primo movimento nel quale si intreccia in modo allusivo una costellazione di simboli: Sion‑metropoli, il suo re‑Signore, le nozze e il loro apparato, la vittoria, la gioia, il sole. Quindi, giorno di vittoria, giorno di nozze, giorno di sole, giorno di Sion, giorno del suo re e di Israele. E Dio, è sole-vittoria-sposo, mentre Sion è Israele‑sposa.

La voce del poeta, che è come il rapsodo dell'epitalamio regale contenuto nel Sal 45, spezza il silenzio delle ultime ore della notte prima che sorga la stella del mattino e appaia la lampada del sole che rischiara tutto l'orizzonte (v. 1). Questa stella e questa lampada sono la «giustizia‑salvezza», cioè nel linguaggio biblico la vittoria del re giusto che proprio in questa giornata rientra nella sua capitale per celebrare il suo trionfo e le sue nozze. Gerusalemme si trasforma, allora, in una sposa impazien­te, tesa nei preparativi del suo abbigliamento nuziale. Con una vivace sovrapposizione di immagini lo sposo appare come il sole e come il sole brilla in tutto il suo splendore: la città con le sue mura battute dalla luce solare sembra

rifulgere come una corona d'oro. La città è, quindi, la corona stessa che lo sposo impone sul capo della principessa che nel giorno delle nozze sta per ricevere il «nuovo nome» (v. 2), deponendo quello triste del suo passato. Per lei, infatti, si apre una nuova storia, quella regale:

 

«Non sarai chiamata più Abbandonata, la tua terra non sarà detta Desolata. Sarai chiamata Mia felicità e la tua terra Sposata» (v. 4).

 

La parabola poetica nuziale viene sciolta dall'araldo nell'ultimo versetto (v. 5), quando la gioia trepidante della luna di miele della coppia regale diventa quella del Dio innamorato che abbraccia la sua sposa Israele:

 

«Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo Architetto».

 

 

 

C) DIO PADRE E MADRE

 

     L’amore è di sua natura creativo: von Rad nel suo commento alla Genesi pensava che il famoso asserto dei «due che divengono una sola carne» di Gn 2,24 altro non fosse che la celebrazione del figlio che nasce come una «carne sola» dalle due «carni» della coppia e del loro amore.È naturale, perciò, che la tipologia nuziale sia stata applicata dalla profezia a Dio e a Israele nella sua integrità. Si tratta di uno sviluppo molto complesso a cui accenniamo soltanto con poche note.

      La coppia che genera era già stata considerata di per sé un segno in Isaia, nel libro dell'Emmanuele (cc. 7‑12), ove il bimbo regale Emmanuele era annunzio della salvezza messianica (c. 7) e ove il figlio stesso di Isaia, Maher-Shalal-Hash-Baz («Pronto alla preda‑veloce al bottino»), era la prefigurazione della vittoria e della speranza imminenti (8,1-4). La sterilità d'Israele, dipinta ad esempio nel passo della «falsa gravidanza» di Is 26,17‑18, è, invece, segno del silenzio di Dio, come lo è ovviamente la vedovanza di Gerusalemme, cantata ripetutamente dalle Lamentazioni (ad esempio 1,1) ma anche da Is 51,18‑20; 54,1‑3; Bar 4,12; Zc 12,12‑14, etc. come esplicita espres­sione dell'abbandono da parte di Dio, lo sposo ormai assente.

La paternità divina, che affiora già alla radice della vicenda esodica (Es 4,22: «Israele è il mio figlio primoge­nito! »), viene presentata in modo intenso proprio da Osea, il profeta più attento a questo tipo di simbolica. Già i suoi tre figli erano un oracolo di Dio fatto carne (cc. 1‑2), ma èin 11,1.4 che si ha la più celebre e delicata manifestazione della paternità di Dio:

 

«Quando Israele era giovinetto, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio... lo li traevo con legami di bontà, con vincoli d'amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (11,1.4).

 

Geremia riprende il motivo in due soliloqui divini che hanno per oggetto Israele, «il suo figlio caro, il fanciullo prediletto» (31,20):

 

«Non gridi ora verso di me: Padre mio ... Io pensavo: Come vorrei considerarti tra i miei figli ... Io pensavo: Voi mi direte: Padre mio ... » (3,4.19).

 

Ed è drammatica la constatazione che il Signore deve fare vedendo i suoi figli cercare un'altra paternità assurda e demoniaca quando essi «dicono ad un pezzo di legno: Tu sei mio padre! E ad una pietra: Tu mi hai generato!» (2,27). L'idolatria non è solo prostituzione ma è anche rifiuto e sconfessione del padre e della famiglia. Malachia, allora, in un vigoroso esame di coscienza richiama ad Israele che l'alleanza significa proprio «essere tutti di un solo Padre» (2,10).

 

     Altrettanto celebre e di grande intensità psicologica è l'esaltazione della maternità divina, implicata già nell'attributo antropomorfico divino rhm, «viscere», tanto caro anche al Corano. Con esso si esprime la «visceralità» istintiva e materna di un Dio che non potrà mai odiare la sua creatura. Il testo d'obbligo è Is 49,15 che è, tra l'altro, inserito in un solenne contesto nuziale (vv. 8‑26):

 

«Si dimentica forse una donna dei suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere. Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai!».

 

È un'immagine che il Secondo Isaia ama e applica in modo molto originale e talora persino sorprendente a Dio. Così in 42,15 il Dio guerriero non esita a compararsi ad una partoriente che grida, si affanna e sbuffa, mentre in forma di similitudine il simbolo è ripreso in 45,10‑11 a proposito del tema della signoria di Dio:

 

«Chi  oserà dire ad un padre: Che cosa generi? 0 ad una donna: Che cosa partorisci? Dice il Signore, il Santo d'Israele, che lo ha plasmato: Volete interrogarmi sul futuro dei miei figli?».

 

E il rotolo di Isaia finisce nel c. 66,7‑13 con una grandiosa allegoria di Gerusalemme rappresentata come partoriente, come madre feconda, nutrice ricca e mamma tenera. Il Signore rivela che alla radice di questa maternità c’è  la sua presenza efficace:

 

«Io che apro il grembo materno, non farò partorire? Dice il Signore. lo che faccio generare, chiuderei il seno? Dice il tuo Dio... Come una madre consola un figlio, Così io vi consolerò» (66,9.13).

 

 

G.R. CASTELLINO, Testi sumerici e accadici, Torino 1977, p. 51. E. KuTsCH, Berit, impegno, in Dizionario Teologico dell'Antico Testamento, vol I, Torino 1978, pp. 295‑306. Vedi anche P. Buis, La notion d'alliance dans l'Ancien Testament, Paris 1976. In Gn 15,7ss è solo la fiaccola ardente che passa in mezzo agli animali squartati, secondo un probabile rito di automaledizione: il fuoco è il simbolo di Dio che, unico, si impegna nella promessa.

1 G. MENDENHALL ‑ D. MC CARTHY ‑ R. SMEND, Per una teologia del patto, Torino 1976.

' Scegliamo solo qualche titolo nell'immensa bibliografia su questa simbolica e sui testi profetici ad essa connessi: L. ALONSO SCHóKEL, Simboli matrimoniali nell'A T, in L'antropologia biblica, Napoli 1981, pp. 365‑387; M. ADINOLFI, ill femminismo della Bibbia, Roma 1981; K. DOOB SAKENFELD, Loyalty and love: The language of human interconnections in the Hebrew Bible, in «Michigan Quarterly Review« 22 (1983), pp. 190­204; P. GRELOT, La coppia umana nella S. Scrittura, Milano 1968; G. HALL, Origin of the marriage metaphor, in «Hebrew Studies» 23 (1982), pp. 169‑171; N.C. HABEL, Yahweh versus Baal: A conflict of religiouws cultures, New York 1964; A. IBAFJEz ARANA, El tema del matrimonio de Dios con Israel en el Antiguo Testamento, in «Lumen» 9 (1960), pp. 404­426; E. SCHILLEBEECKX, Il matrimonio: realtà terrena e mistero di salvezza, Roma 11980; G. VOLLEBREGT, Il matrimonio nella Bibbia, Bari 11968. Per un'analisi di tutti i testi profetici citati vedi L. ALONSO SCHóKEL ‑ J.L. SICRE DIAZ, I profeti, Roma 1984.

1 Pensiamo alla stessa Gomer, moglie di Osea, «prostituta» ' alla scena emblematica di Nni 25 (cf. Sal 106,28‑31) o al toro d'oro fecondatore sotto cui si tenta di rappresentare JHWH in Es 32‑34. In questa linea va anche la sottolineatura che Osea dà all'aridità e alla fertilità nel suo cantico del c. 2 (vv. 5.7‑8.10‑11.14.17.20.23‑25).

1 Vedi R.P. MERENDINO, L'amore trasforma. Riflessioni sulla para­bola della vigna (Is 5,1‑7), in PSV (1984) 10, pp. 35‑49.

7 Vedi la nostra analisi in Mi ricordo del tuo amore, in PSV (1985) 11, pp. 35‑45.

1 Vedi la nostra analisi in Israele, sposa amata, castigata e perdonata (Ez 16), in PSY (1984) 10, pp. 50‑64.

1 Il TM legge banajk: «I tuoi figli(?) ti sposeranno» . Si può, però, vocalizzare bonék, «il tuo Architetto» (il participio in ebraico sarebbe al plurale maiestatico).

` Rimandiamo infatti al fascicolo n. 10 Dio è amore della nostra rivista, in particolare al saggio di A. Mello sull'amore paterno di Dio in Osea e Geremia. Vedi anche il n. 104 di «Lumière et Vie» 20 (1971) interamente dedicato alla paternità di Dio.

" Vedi la nota 52 della Dives in misericordia, enciclica di Giovanni Paolo 11. Lo studio più recente sul tema è quello di M. I. GRUBER, The motherhood of God in Second Isaiah, in «Revue Biblique» 90 (1983), pp. 351‑359.