ANTONIO BONORA

UOMO E DONNA IN GN 1-11

in Lo sposo e la sposa / PSV 13, EDB, Bologna 1986, pp.11-25

 

 

 

Secondo Platone, amore cerca di far uno ciò ch'è due, mentre ciascuno di noi è solo una parte o, per meglio dire, «simbolo» dell'uomo intero (anthrópou symbolon). L'uomo non è un essere unisex, ma si realizza nella polarità di uomo-donna. Maschio e femmina non sono soltanto differenze di «ruoli», neppure soltanto diversità fisico-sessuali. Ciò vuol dire che non si dà un'essenza dell'uomo, che non tenga conto della differenza tra maschio e femmina. Ciascuno di noi è «simbolo» dell'uomo intero: uomo e donna possono realizzarsi soltanto l'uno con l'altra. Il modello biblico non è forse tanto quello della «complementarietà» di uomo e donna, bensì quello della polarità simbolica. Su questo orizzonte, che Gn 1‑11 aiuta a illuminare, si può comprendere meglio il matrimonio.

 

In questa meditazione biblica, rifletteremo sul rapporto uomo‑donna in Gn 1‑11. Preferiamo usare, come fa il testo biblico, la formula ampia «uomo‑donna», invece di «marito‑moglie». Del resto, l'ebraico biblico non ha un termine per indicare «matrimonio», ma usa espressioni come «donna (moglie) di» oppure «uomo (marito) di».

 

«Questo linguaggio ricaccia in secondo piano il matrimonio come concetto, o come complesso di norme, o come insieme di

usanze: riportando in primo piano il matrimonio come realtà umana».

 

L'uomo e la donna che diventano marito e moglie non assumono solo una funzione o un ruolo particolare, ma «si realizzano» in una particolare forma di relazione con l'altro. «Sposarsi» non è «avere un marito (o una moglie)», bensì essere in una precisa relazione con il marito (o la moglie). Il matrimonio tocca il modo di essere, non solo il modo di fare o di avere.

 

La seconda premessa riguarda l'idea di «uomo» che emerge da questi capitoli di Gn: l'uomo è definito non in modo statico ma dinamico come un complesso di relazioni: con Dio, con gli altri, con le cose. L'uomo è relazione. Egli si attua precisamente nel rapporto con l'altro.

 

In terzo luogo, va premesso che in Gn 1‑11 l'uomo è sempre considerato nella sua totalità unitaria di spirito incarnato, di anima e corpo uniti inscindibilmente. È estranea alla Bibbia la dicotomia, di matrice platonica, tra anima e corpo.

 

Infine, ricordiamo che la riflessione su uomo‑donna è fatta sempre a partire da quel che Dio fa ed è per l'uomo‑donna. Ciò significa che si tratta di una visione teologica, secondo cui la relazione dell'uomo con Dio è la sorgente di senso ed è quindi determinante per ogni altra relazione umana.

Non ci soffermeremo su un testo soltanto, sia perché Gn 1‑11 costituiscono una compatta unità letteraria e teologica sia perché ci pare importante cogliere il quadro antropologico generale nel quale acquista senso e rilievo la relazione sponsale uomo‑donna .

 

A) UOMO E DONNA AD IMMAGINE DI DIO

 

Innanzitutto l'uomo è definito dal suo rapporto con Dio espresso plasticamente nella categoria dell'immagine:

 

«Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gn 1,27).

 

L'essere immagine di Dio non è una qualità accidentale, ma è costitutivo dell'essere uomo: sia il maschio sia la femmina sono essenzialmente costituiti ed esistono in quanto immagine di Dio. L'essere immagine di Dio è la dimensione propria per cui si differenziano sia da Dio sia dagli animali e dalle cose. L'essere immagine coincide, dunque, con la stessa creaturalità umana, definita come totalmente «relativa» a Dio.

 

l. LA RELAZIONE DELL'UOMO CON DIO

 

Più precisamente l'essere immagine significa l'apertura e la capacità di incontro con Dio: ciò vuol dire che l'uomo porta inscritto nel suo essere‑creatura di Dio il disegno e la volontà salvifica del Creatore. Ma vuol anche dire che l'uomo non è subordinato a qualche fine, come per es. presso i babilonesi per i quali l'uomo è fatto per il lavoro. L'uomo non è un mezzo o uno strumento, ma un fine in se stesso.

È questa la radice di tutti i diritti fondamentali e della dignità della persona umana, al di là di ogni differenza di sesso, di razza, di popolo e di religione. Dio crea l'uomo facendolo un valore per se stesso; lo crea per donarsi a lui, non per farlo suo schiavo. La «verità» dell'uomo è dunque stabilita dalla libera volontà d'amore del Creatore.

      La relazione con Dio, che è costitutiva dell'uomo, non dipende soltanto dalla fede, ma è già posta nell'azione creatrice divina e nemmeno il peccato, pur con la sua devastante azione corruttrice, può rompere o annullare questa originaria relazione. Infatti dopo il diluvio, conseguenza del peccato, non si ripete la creazione dell'uomo a immagine di Dio, ma la si ricorda come realtà consolidata e non cancellata (Gn 9,6) mentre viene ripetuta la benedizione.

Che l'uomo sia costituito dalla capacità di dialogo con Dio è l'intenzione e la volontà creatrice divina espressa dal «facciamo» in Gn 1,26: «E Dio disse: Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza».

 

«La differenziazione sessuale fa parte quindi di quella determinazione dell'essere che l'uomo possiede in conformità con la creazione. L'uomo in quanto tale non esiste affatto; l'uomo esiste solamente come maschio e femmina. Egli trova la sua umana pienezza di senso soltanto nell'essere l'uno con l'altro e l'uno per l'altro dei due. Questo mistero che corre tra l'uomo e la donna è così profondo che il loro reciproco legame è immagine e somiglianza dell'alleanza di Dio con l'uomo, figura dell'amore di Dio, della sua fedeltà e della sua forza creatrice. Con ciò è assegnata al matrimonio una dignità difficilmente superabile, una dignità che esclude a priori ogni antagonismo tra i sessi».

 

In quanto sono immagine di Dio, uomo e la donna esistono come responsabili di fronte a Dio, destinati nella loro creaturalità stessa ad essere «alleati» di Dio. La relazione uomo‑donna, che culmina nel matrimonio, non può dunque prescindere dalla sua radicale destinazione all'alleanza con Dio, precisamente perché questa stessa relazione rientra nell'essere immagine di Dio.

 

2. L'UOMO COME UNITA’ DUALE

 

Con l'espressione «unità duale» intendo dire che uomo e donna sono due «soggetti» reali, capaci di scegliere e non solo di subire, sia di fronte a Dio sia di fronte agli altri. Si tratta di due realtà diverse, ma inseparabili l'una dall'altra: non intendiamo l'«unità» come se all'origine sia esistito un uomo asessuato o bisessuato (androgino), per cui Gn 2,18‑22 farebbe ricorso al mito della disgiunzione di Adamo in due «frammenti» ricomponibili come in un puzzle. La menzione della creazione in due sessi (Gn 1,27: «maschio e femmina li creò») ci sembra vietare ogni supposto mito di un'umanità archetipa (asessuata o androgina). Anche l'accenno al «non bene» della solitudine dell'uomo (Gn 2,18) impedisce di pensare a un uomo archetipo androgino che soltanto dopo la divisione sente il desiderio e la nostalgia della congiunzione: di fatto il racconto biblico mette la formazione della donna non prima, ma dopo il «non bene» della solitudine.

Nella sua attività creatrice, Dio vuole il bene dell'uomo al quale dona la vita e per il quale crea un «giardino». Tutto il c. 2 di Genesi ci presenta Dio come prodigo dispensatore dei suoi doni all'uomo, che sta al centro delle cure divine. Ma tutti gli intimi pensieri e l'amore di Dio esplodono, esprimendo il vertice della sua cura per l'uomo, nella riflessione di Gn 2,18: «Non è bene che l'uomo sia solo», Dio vuole dunque realizzare il bene dell'uomo e perciò attua la differenziazione in maschio e femmina. Qui culmina l'azione creatrice di Dio: il mondo ha la forma voluta da Dio soltanto quando appare la coppia umana. Soltanto quando l'uomo diventa un essere sociale nella differenziazione e reciprocità di «aiuto» tra uomo e donna, soltanto allora la cura di Dio per il bene dell'uomo raggiunge il suo culmine. La coppia uomo‑donna è l'originaria comunità, concretizzazione emblematica della socialità dell'essere umano.

Per provvedere alla solitudine dell'uomo, Dio crea la donna dichiarando espressamente la propria intenzione: «Gli voglio fare un aiuto ('ezer) che gli sia simile» (Gn 2,18) (Bibbia CEI). Il termine 'ezer (= aiuto) indica sempre, nella Bibbia ebraica, un aiuto che permette di sfuggire ai grandi pericoli che minacciano l'esistenza al punto che Dio solo può liberare da essi. Il pericolo mortale per l'uomo è la «solitudine», evocatrice del deserto sterile e senza vita. La vita non è veramente tale se non quando si può condividerla e trasmetterla: la solitudine è parente della morte. Dio vuole dare all'uomo la pienezza della vita, per questo gli dona un «alleato» che sia, come dice l'ebraico, kenegdô, cioè un alleato all'altezza del suo partner o una persona dello stesso genere. Gli animali e le cose, infatti, non possono essere un «alleato» dell'uomo come lo è invece la donna. Commenta Sir 36,29:

 

«Chi si procura una donna fa il più bell'acquisto: ella è un alleato ('ezer), una fortezza e una colonna d'appoggio»

 

 

La donna, dunque, è della stessa «stoffa» dell'uomo, tanto che la prima poesia d'amore canta così: «Essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gn 2,24). Tutte le creature, infatti, sono tratte dalla terra, ma la donna è tratta dall'uomo, annichilito in un profondo torpore, e a lui donata da Dio. C'è una connaturalità profonda tra uomo e donna. Perciò l'uomo lascia suo padre e sua madre, cioè supera la relazione filiale per cui dipendeva dai genitori fin dalla nascita, aderisce alla sua donna, cioè passa dalla relazione filiale a quella coniugale, espressa dalla ricchezza semantica del verbo «aderire» (dabaq), che designa una relazione interpersonale profonda.

 

3. «ED ESSI DIVENTANO UNA SOLA CARNE» (GN 2,24)

 

Non è facile spiegare quest'espressione. Un accurato e fine studio di M. Gilbert arriva alla seguente conclusione, che riferiamo per esteso:

 

«L'opinione che vede in Gn 2,23‑24 un riferimento all'unione carnale degli sposi non sembra fondata, benché il giudaismo antico abbia imboccato questa via d'interpretazione. Al contrario, l'opinione che interpreta Gn 2,23‑24 in riferimento all'unione coniugale in tutta la sua ampiezza, ossia all'impegno, fondato sulla fedeltà e l'amore, dell'uomo e della donna, impegno che li avvicina più di ogni altro accordo tra uomini e li lega l'uno all'altra con tutte le fibre del loro essere più di quanto legassero i legami di filiazione, questa opinione può avvalersi di molti seri argomenti sul piano esegetico».

 

Ogni unione vissuta di un uomo e di una donna fanno di essi «una sola carne», un essere solo. In 1Cor 6,16‑17 san Paolo dirà che il matrimonio cristiano fa degli sposi non soltanto un solo corpo, una sola carne, ma soprattutto la loro unione reciproca e con il Cristo li fanno, con lui, un solo spirito.

 

«Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non provavano vergogna» (Gn 2,25).

 

 In Gn 2 tutto è considerato dal punto di vista di Dio: anche la sessualità è vista nella prospettiva di Dio creatore, prescindendo dalle deformazioni psicologiche, morali o sociali che possono contaminarla, come è detto in Gn 3. Il quadro, dunque, di Gn 2 termina con una nota ottimistica:

«La nudità paradisiaca (Gn 2,25) non è spudoratezza (impudeur), ma un indizio del fatto che i due partners della coppia "ne se font pas honte" l'uno all'altro».

 

Ciò significa che 1'uomo e la donna, prima del peccato, non si mettevano in imbarazzo l'un l'altro, ma avevano tra di loro un rispetto profondo e sereno. Se «nudità» indicasse qui anche la fragilità della creatura, potremmo vedere nell'affermazione di Gn 2,25 anche l'idea che uomo e donna, fragili e deboli creature, si sentono in armonia tra di loro, senza spudoratezza ma rispettosi e sereni l'uno di fronte all'altro, ma anche in armonia con il loro Creatore che li ama e li protegge.

 

 

 

B) PECCATO E DISARMONIA

 

Al Dio che dona e si prende cura del «bene» dell'uomo (Gn 2) è contrapposto, nel c.3, il peccato e le rovinose conseguenze di esso. Interviene un cambiamento che riguarda tutti i rapporti umani.

 

La vergogna e la nudità (Gn 3,7.10) indicano la rottura di comunicazione amicale con Dio. Gli animali, creati per l'uomo, diventano ostili e nemici. La comunità tra uomo e donna è profondamente dilacerata dalla presenza di rapporti di forza: la donna è dominata e sottomessa (Gn 3,16). Subentrano la fatica e il dolore, che incrinano il rapporto uomo‑terra e donna‑uomo (il parto) (Gn 3,17­19). La vita è così radicalmente soggetta a una terribile tendenza alla morte (Gn 3,19). Il serpente, cioè il male, insidia mortalmente e continuamente la stirpe umana che è in tal modo sempre esposta al pericolo della morte (Gn 3,15) in una lotta drammatica. La coppia «si nasconde» da Dio (Gn 3,10), perché è stato rotto il rapporto integro con lui. La nudità è ora connessa con la paura, segno di disorientamento e conseguenza di un disordine.

Durante l'interrogatorio di Dio, l'uomo accusa non tanto la donna, quanto piuttosto Dio stesso, responsabile di avergli messo accanto la donna (Gn 3,12), la quale gli ha dato da mangiare il frutto proibito. Quel che Dio aveva fatto per il bene dell'uomo, cioè la creazione della donna, qui diventa oggetto di critica e viene ritenuto la causa della rovina della coppia. Dio è accusato di aver vinto la solitudine di Adam, creando la donna seduttrice e ingannevole!

La vita continua, pure all'ombra del terribile «Polvere tu sei e in polvere tornerai» (Gn 3 ~ 19). La morte non è una liberazione né un passaggio alla felicità. La conseguenza della caduta si concretizza nella morte, in cui sfocia il fiume delle fatiche e delle sofferenze umane. Ma la donna è pur sempre la madre dei viventi (Gn 3,20), garanzia e riserva della continuità della vita umana, che Dio non abbandona, ma protegge con il vestito (Gn 3,21). Dopo la caduta, la vita ‑ anche per la coppia ‑ è notevolmente cambiata, ma non è distrutta.

La scelta della coppia di fronte all'albero della decisione ha portato a un mutamento dei rapporti con Dio, con gli altri e con le cose; inoltre ha introdotto delle restrizioni e disarmonie in tutti i settori della vita. L'albero della vita non è più accessibile alla coppia fin quando verrà Gesù Cristo, che trasformerà l'albero della croce, la morte e tutto il suo corteo, in fonte perenne di vita eterna.

 

 

C) LA COPPIA IN RAPPORTO CON IL COSMO E DIO

 

Uomo e donna, in quanto differenziazione sessuale, potrebbero essere collocati dalla parte del cosmo, contrapposti al mondo dello spirito, cioè il mondo di Dio. Ma non è così in Gn 1-11: uomo e donna, in quanto immagine di Dio e quindi soggetti reali di libertà, si fanno incontro l'uno all'altra come corpo in uno spirito o come spirito in un corpo. Qual è il senso della coppia nel contesto dell'unità umana di anima e corpo, che colloca l'essere umano ai confini tra mondo e Dio?

 

1. L'UOMO TRA IL MONDO E DIO (CORPO E SPIRITO)

 

«Il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo» (Gn 2,7).

 

L'uomo è tratto dalla terra (Gn 3,19), ossia ha un legame essenziale con il cosmo. Egli è «carne» (basar), corporeità creata e distinta da Dio (cf. Gn 2,23; 6,3.12), dunque essere limitato e finito, destinato alla morte (cf. Gn 3,19: tratto dalla terra, l'uomo torna alla terra). L’uomo non solo ha un corpo, ma è corpo.

Viene anche detto che Dio «soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo diventò un essere vivente» (Gn 2,7). Confrontato con Pro 20,27, dove lo spirito è definito «una fiaccola che scruta i segreti dell'intimo», questo passo potrebbe essere interpretato nel senso che Dio ha messo nell'uomo l'autocoscienza, una luce che è segno della sua partecipazione umana alla vita divina. L'uomo, dunque, è corporeità spiritualizzata o spirito incarnato, una nefes (= essere umano vivente). Ma nefes indica anche che l'uomo è costituito dal «desiderio» cioè da una tensione infinitamente insoddisfatta, perché nefes designa la «gola», sede e simbolo dei desideri. Nell'unità corporeo-spirituale della sua persona, l'uomo è desiderio, apertura e intenzionalità, dunque libertà in cerca di compimento e di verità, capacità di amore sempre dischiusa.

La concezione biblica dell'uomo sfugge ad ogni dualismo tra corpo e spirito; non nega la complessità dell'uomo, ma ne afferma fortemente l'unità. L'uomo è una profonda unità di corpo e spirito, di fisico e spirituale, di materiale e psichico. In tal modo, la visione biblica dell'uomo si differenzia dal pensiero dualistico greco che considera anima e corpo come principi autonomi.

L'essere «una sola carne» di Gn 2,24 coinvolge tutta la ricchezza corporeo-spirituale dell'essere umano. Il matrimonio è la totalità della comunione corporeo-spirituale di uomo e donna: un coniuge dice all'altro: «Io ti amo interamente con tutto me stesso!»

 

2. L'UOMO CHE PARLA, GENERA, LAVORA

 

L'uomo è creato mediante la parola divina: «Dio disse: Facciamo l'uomo» (Gn 1,26). L'uomo è dunque, in un certo senso, una «parola» di Dio, una realtà significativa perché attuazione di una parola di Dio. Egli porta in sé qualcosa di quella parola creatrice, il senso e il valore partecipatogli dal Creatore. Ma, a sua volta, l'uomo è un essere che parla: Dio fa passare ogni essere di fronte all'uomo, cosicché «in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome» (Gn 2,19). Dare il nome agli essere viventi è tentare una comunicazione linguistica, cercare di mettere ordine e classificare per comprendere e definire. Ma la pienezza del linguaggio non è il monologo, bensì il dialogo. E con gli animali non è possibile dialogare. Soltanto quando si è creata la donna, l'uomo esplode nel primo canto poetico d'amore:

 

È carne della mia carne e osso delle mie ossa. La si chiamerà «donna» (‘issa) perché dall'«uomo» (‘is) è stata tolta» (Gn 2,23).

 

Uomo e donna, in quanto immagine di Dio, hanno la capacità di dialogare, di comunicazione interpersonale. Senza la parola e la correlativa capacità di ascolto, l'uomo sarebbe totalmente chiuso in se stesso, non sarebbe più uomo.

Ora, l'essere «una sola carne» implica anche la dichiarazione di amore reciproco.

 

«Quando un uomo e una donna si amano, ma non dichiarano il loro amore, non sono ancora innamorati. Il loro stesso silenzio significa che il loro amore non è ancora arrivato alla dedizione e al dono di sé. È l'amore che uno liberamente e senza riserve rivela all'altro che costituisce la situazione radicalmente nuova di essere innamorati e che dà inizio allo spiegamento delle sue implicazioni le quali abbracciano tutto il corso di una vita».

 

L'uomo e la donna sono esseri che generano:

 

«Dio li benedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gn 1,28; cf. 3,20; 4,1; 9,7).

 

Notiamo che si tratta di benedizione, non di un imperativo etico: da Gn 1,28 non si potrebbe dedurre né una dottrina natalista ad oltranza né una politica antinatalista.

 

«Dio dona all'uomo e alla donna l'assicurazione della fecondità e con ciò conferisce loro una parte del suo potere creatore: la coppia procreerà».

 

Con la benedizione Dio promette alla coppia umana la fecondità e dona la capacità di procreare, per la conservazione e la propagazione del genere umano. In questa prospettiva, si può capire come la donna ebrea considerasse la sterilità un'infamia, alla stregua della sofferenza, della malattia e della morte. Così pure si capisce come la famiglia numerosa fosse vista come segno della benedizione divina. Forse il passaggio dalla poligamia alla monogamia si può spiegare anche come il passaggio da un momento in cui la discendenza umana numerosa è il bene massimo a quello in cui il matrimonio viene visto anche come legame interpersonale tra gli sposi, come valore in sé.

 

«Niente impedisce di vedere in Gn 1,28 la menzione di uno dei fini del matrimonio», cioè la procreazione.

 

Ampliando il senso del verbo «generare», con esso possiamo comprendere la capacità creativa dell'uomo in quanto essere pragmatico, cioè il lavoro.

 

«II Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2,15).

 

L'uomo è stato creato come essere che lavora, ma il lavoro non assorbe tutta l'essenza dell'uomo. Il lavoro non è un idolo. L'uomo deve «prendere possesso e addomesticare» (Gn 1,28) la terra. Il lavoro non è dunque un'impresa di anarchico sfruttamento del cosmo, ma un custodire l'opera di Dio. Con il suo lavoro, l'uomo realizza il suo essere‑immagine di Dio, nel senso che lavora perché l'ordine cosmico, voluto dal Creatore, di fatto si realizzi. Il lavoro umano è continuazione del «lavoro» creatore di Dio (non direi «collaborazione»), non è quindi conseguenza del peccato. Con il lavoro l'uomo attua il suo inserimento nel cosmo e il suo dialogo con gli altri uomini.

Ma l'uomo deve anche fare festa nel giorno di sabato (Es 20,10‑11; Dt 5,13‑15). La festa-riposo è comunicazione con Dio, celebrazione della trascendenza della persona sul lavoro e sulle cose. L'uomo è fatto a immagine di Dio anche nel senso che, come Dio, lavora e riposa (Gn 2,1‑3). Nel ritmo di lavoro‑riposo l'uomo non soltanto imita Dio, ma pure introduce Dio e il. suo ritmo vitale nel mondo. Non si vive soltanto per lavorare. Il sabato è il giorno di festa nel quale l'uomo si abbevera alla sorgente assoluta del suo esistere, anche come coppia di uomo e donna nel matrimonio, e cosi dà senso alla sua vita.

Parola, generazione, lavoro: anche queste dimensioni fondamentali dell'essere uomo entrano a costituire la coppia.

 

 

D) L'UOMO PECCATORE PERCHÈ VIOLENTO

 

L'uomo reale e storicamente esistente è un essere peccatore (cf. Gn 3; 4; 6; 11). Il peccato assume forme e concretizzazioni diverse. È fratricidio, è vendetta, è corruzione, è rivolta contro Dio, ma la radice di ogni male è la violenza: «La terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza» (Gn 6,11). È questo il grido di denuncia anche dei profeti (cf. Ger 20,8: «Quando parlo, devo gridare, devo proclamare: Violenza, oppressione!». Il marito è violento verso la moglie: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (Gn 3,16). Il fratello è violento verso il fratello (cf. Caino e Abele). L'uomo vuol far violenza strappando a Dio i suoi doni (Gn 3).

La violenza è peccato non soltanto contro l'immagine di Dio, ma anche contro il Creatore di quell'immagine. La legge è proibizione della violenza:

 

«Chi sparge il sangue dell'uomo, dall'uomo il suo sangue sarà sparso, perché a immagine di Dio egli ha fatto l'uomo» (Gn 9,6).

 

Si tratta delle leggi umane, che sono un regolamento della violenza attraverso la minaccia violenta di un castigo. La violenza genera violenza.

Non c'è solo la violenza del singolo, ma c'è anche la violenza collettiva della società e c'è perfino una cultura violenta.

 

«Con Caino e Abele comincia l'ostilità fraterna, perisce una vita, Dio si riserva la vendetta. Intanto la vita continua nella linea maledetta di Caino, la civiltà avanza e cresce il peccato (cf. 4,17.26). L'uomo rivendica per sé la vendetta in progressione geometrica... Caino fonda una città (homo politicus), che dedica a suo figlio. Un ponte basato su tre nomi ci fa passare alla quinta generazione, a Lamech, dai cui figli sorge la dinastia dei fabbri (homo faber) e dei musici (homo ludens)... La civiltà non è riuscita a rendere migliore l'uomo, perché questi non ha saputo dominare il peccato che lo insidia. Lamech è degno discendente di Caino... In Gn 4,25‑26 si inaugura una nuova linea, quella dell' homo religiosus».

 

Anche in questo quadro genesiaco dello sviluppo dell'umana civiltà, entra il peccato capitale, la violenza.

La violenza nasce dal desiderio di abolire la differenza. Il primo peccato è espressione del desiderio di «conoscere il bene e il male» (Gn 3,5), cioè di «diventare come Dio». Ora «conoscere» implica un «potere»; «bene e male» è un'espressione polare per indicare la totalità. L'uomo peccatore vuole appropriarsi di una competenza assoluta ed universale che spetta soltanto a Dio, vuole perciò abolire la differenza fra sé e Dio. La giustizia, opposto della violenza, si fonda invece proprio sul riconoscimento dell'altro come altro e di Dio come l'unico assoluto. Ogni volta che l'uomo afferma «Questo è tutto», assolutizza un particolare e diventa violento.

L'episodio di Gn 6,14, sul matrimonio dei «figli di Dio» con le «figlie degli uomini», rappresenta la trasgressione del limite umano nel campo sessuale. Soltanto accettando il limite posto alla sua umana creaturalità l'uomo realizza se stesso.

Nel racconto della torre di Babele (Gn 11, 1‑9) gli uomini si uniscono per costruire una sola città (unità politica), una sola torre templare (unità religiosa), un'unica cultura con una sola lingua (unità culturale) e «farsi un nome», cioè diventare potenti e ricchi: assolutizzano il proprio prodotto e lo adorano come il tutto. Non vogliono accettare la varietà e la pluralità, inerente al limite creaturale. Ma Dio disperde quel sogno di violenza collettiva.

Chi dunque può liberare dalla violenza? Soltanto Dio può far scoprire il dono del suo amore e liberare dalla violenza. E soltanto con Dio l'uomo impara ad amare, a dare se stesso per gli altri. Nell'amore l'uomo rifiuta la violenza, perché si riconosce come essenzialmente «dato»

da un Altro e come essere-per-l’altro. Nemmeno la coppia di uomo‑donna può sfuggire alla tentazione della violenza senza l'amore di Dio.

 

CONCLUSIONE: L'UOMO COME ESSERE RELAZIONALE

 

C'è una formula breve per definire l'uomo? Questa: l'uomo è un essere relazionale. La riflessione da noi fatta su Gn 1‑11 ci ha mostrato che l'uomo è essenzialmente costituito dalle relazioni con Dio, con gli altri e con il cosmo.

La relazione con Dio è espressa soprattutto dal tema dell'immagine di Dio. La relazione con il cosmo è definita in base soprattutto alla corporeità dell'uomo. La relazione con gli altri è esemplificata mediante la fraternità, la comunità sociale, la famiglia, ma soprattutto attraverso la coppia uomo‑donna perché ogni comunità ha il suo nucleo e centro nella comunità tra uomo e donna. «Soltanto l'uomo-in-comunità è realmente uomo».

Ma l'uomo e la donna, di cui parla Gn 1‑11, è un essere storico, non un'essenza astratta. E la storia umana è fatta anche dei peccati, cioè della violenza umana, che corrompe ogni relazione. La coppia uomo‑donna è essa stessa continuamente minacciata dal peccato, cioè di non corrispondere al disegno amante di Dio che ha creato l'uomo e la donna per comunicarsi ad essi e renderli suoi figli. E quella volontà salvifica, che ha presieduto all'azione creatrice di Dio, si esprime compiutamente nell'esistenza di Gesù, nel quale rifulge il modello e il principio dell'umanità autentica.